Ho visto “poor things” così potete evitare di farlo anche se non ne avevate alcuna intenzione

Recensione di Filippo Carmelo

Grigory Lathimos si è stufato di vincere premi da cineforum comunista, e punta quindi a vincere il premio del Komintern: gli Oskar Schindler assegnati dall’Accademia delle Scienze di Hollywood. Basta nominations straccione: così come De Capri, stufo di arrivare secondo si presentò con “The Revenents” gorgogliando sangue, qui ogni mossa del film è studiata per far sbrodolare i burocrati di partito che siedono a Botteghe Oscure. Film che parte interessante come nella miglior tradizione di Lanthios ma poi diventa il film della Cortellesi: manca solo William, il soldato afroamericano amico che fa saltare in aria il bar dei fasci. Ah no c’è anche lui.

Un cast guerrestellare, dal mio vicino di casa William Dafoe a Emmy Stone che sembra Frida Karlo, passando per un fiammeggiante Bark Muffalo e poi basta. Non si bada a spese, con le migliori scenografie di cartapesta dei peggiori film di Wes Anderson, ci consegnano 140 minuti del miglior bildingsromanz sadiano. Una Justine/Juliette che ad ogni bivio fa la scelta che farebbe ingorgoglire Michaela Murgia (ciao Miky, manchi). No a parte gli scherzi porca puttana sembra davvero di leggere il padre nobile del liberalprogressismo (De Sade) in ogni passaggio, ad ogni spiegone da baci perugina per semicolto dove viene attentamente eviscerato – letteralmente – il motivo per cui il progresso è sempre meglio di qualunque alternativa sensata. C’è sempre una bella spiegazione razionale dietro ogni aberrazione.

Così come per De Sade, rimane il dubbio che forse sta trollando, che forse dietro il grottesco e caricaturale inseguimento di ogni ideale illuministico, cioè perversione di tutto ciò che è bello, sacro e giusto, ci sia in fondo una feroce critica alla modernità. Potrebbe avere senso: questo aborto della scienza che ingenuamente scopre il mondo diventando naturalmente una eroina femminista in un mondo di maschi brutti, sembra troppo costruita, troppo estrema, non può che essere stata pensata per generare repulsione nello spettatore. Invece no, subito ci ricordiamo che siamo nel mondo Pagliacci, dove le “transwomen” sono dei trentaduenni gonfi di estrogeni e paroxetina coi capelli unti, e se dici che non li vuoi a masturbarsi nello spogliatoio della piscina dove va tua figlia undicenne ti arrivano i Ros a casa.  

Quindi no, mi dispiace, non è una critica, ma noi la leggiamo comunque come tale perché disvela la realtà in modo didascalicamente irritante. Fanfani diceva che femminismo = tua moglie che se ne va di casa diventa lesbica e scappa con la domestica, cazzo se aveva ragione. Il film è inequivocabile: liberazione della donna uguale diventa una puttana lesbica e vivi coi soldi dell’eredità di tuo padre, cioè letteralmente la realtà che viviamo. 

Il film chiude con uno spiraglio di speranza. La protagonista, circondata dalla sua “famiglia queer” sorride compiaciuta perché sa che diventerà medico, e noi possiamo finalmente abbandonarci con lei fra le dolci onde del Lago Duria: è un mondo sterile, non ci sono bambini, verrà tutto spazzato via dagli Zulu.

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